L’onda felice

di Mamma Oca

Dedicata alla signora Antonietta Garzia e al signor Pietro Faggin

Il mio lavoro non mi concede un attimo di respiro, sono sempre al lavoro, giorno e notte, non c’è tregua.  Poco mi consola il fatto d’essere circondata da altre che, come me, non possono permettersi la più breve pausa. E nemmeno riusciamo a scambiarci qualche parola. Il lavoro ci costringe a guardare sempre avanti, tanto che non conosco l’aspetto di chi mi sta più vicino e – questo mi secca moltissimo – neanche il mio. Dove mi trovo, sarebbe vano trovare specchi. 

Ci sono momenti – brevi, rari e senza date precise, come potrebbero essere Natale o Ferragosto – in cui non si lavora. Succede quando i venti, capricciosissimi di natura, decidono di mettersi a riposo oppure di andare a far danni da un’altra parte. La chiamano bonaccia.

A questo punto, penso di non aver bisogno di presentarmi, l’avrete capito tutti che sono un’onda.

Dopo tanto faticare, quando i venti si dileguano non ci par vero di appiattirci come fogli di carta e dormire, dormire per riprendere le forze. Io soltanto non riuscivo ad abbandonarmi al sonno perché avevo in mente di profittare di quei momenti di inattività forzata per soddisfare il mio inesausto desiderio di scoprire com’ero fatta. In mancanza di specchi, mi era venuto in mente di farmi fare un ritratto dal famoso artista giapponese Hokusai, autore dell’incisione conosciuta in ogni parte dell’universo, tanto che ne ero venuta a conoscenza anch’io, nel mio piccolo: La grande onda si chiama, e figuratevi se non ne ero interessata a titolo personale. 

Non mi fu difficile mettermi in contatto con il direttore del museo dov’era conservata La grande onda, grazie al fatto che si trovava nei pressi di Tokio, e per mia fortuna Tokio è bagnata dal mare. Purtroppo non trovai nessuna comprensione da parte del direttore, che subito mi mise al corrente che il signor Hokusai era morto da un pezzo, aggiungendo con disprezzo: “Come pensa che quel sommo artista, dopo La grande onda, si sarebbe abbassato a incidere La piccola onda?”.

Avvilita, rassegnata, mi affrettai a riprendere la mia anonima postazione. Che monotonia i miei giorni. Per mia disgrazia, non mi trovavo sulla rotta delle navi, tanto per avere qualche distrazione; c’erano è vero molti pesci, ma mi sfioravano sempre di fretta, senza neanche rivolgermi un’occhiata. Solamente i delfini avevano la cortesia di salutare, e qualche volta si fermavano a fare due chiacchiere. 

Avevo talmente fatto l’abitudine al mio tran tran senza fine, che mi stupii non poco – anzi, mi spaventai – quando mi sentii sollevare insieme a molte altre onde, per poi precipitare in un enorme cassone che si trovava sulla terraferma. E quel cassone cominciò a muoversi, con grande mio sgomento. L’onda più vicina mi spiegò che il cassone si muoveva grazie a delle ruote, ma questo non bastò a rassicurarmi. Ad ogni scossone temevo di venire sbalzata fuori, e allora, assorbita dalla terra, sarebbe stata la mia fine. In quei momenti, la mia precedente esistenza, tanto detestata, mi appariva come un paradiso. O quasi.

Il cassone si fermò, o per meglio dire le ruote, e finii scaraventata in una vasca molto profonda e così grande da non vederne i confini. Guardandomi attorno – dal momento che, non venendo più sospinta dall’incessante moto ondoso, potevo avere una certa libertà di movimento – scoprii che il panorama che circondava la vasca era d’un colore diverso dall’intenso blu cui ero abituata. Qui tutto verdeggiava, ma c’erano anche macchie di altri colori. L’esperta onda mia vicina, che aveva avuto occasione di consultare un manuale di botanica caduto da una nave, mi spiegò che erano fiori. Il cielo era azzurro, senza una nube.

Quel posto, quella sistemazione mi piacevano, ma perché mi trovavo lì? Cominciai a capire qualcosa quando disposero file di sedili intorno alla vasca, nella quale erano stati introdotti sei delfini, con cui subito avevo fatto amicizia. Se ne stavano tranquilli, nuotando pigramente, sino a quando i sedili si riempivano di pubblico. Allora, come galvanizzati, cominciavano a fare capriole, a slanciarsi in verticale per qualche metro fuori dall’acqua, per ripiombare giù tra grandi schizzi, nei quali spesso ero coinvolta, con mio grande divertimento. E c’erano tanti bambini, sempre intorno alla vasca per toccare e accarezzare i delfini, che li facevano ridere con buffe smorfie. Mi piaceva quando i bambini mi toccavano con le loro piccole manine, specialmente se avevano da poco mangiato un gelato, in particolare al gusto di cioccolata.

Come venni presto a sapere, le acrobatiche esibizioni dei delfini erano vincolate da un ferreo contratto, e la destinazione di chi non avesse osservato qualcuna delle sue ferree clausole era la pescheria. Di notte, stanchi, sfiniti dei salti e delle capriole, invece di abbandonarsi al sonno e al riposo, non facevano che piangere la perduta libertà e i parenti che non avrebbero mai più rivisti.

Quanto a me, l’unico rimpianto era la perdita dei cangianti riflessi della luna che dopo il tramonto giocavano su di me. Non che qui mancasse la luna: la oscuravano i potenti riflettori accesi tutta la notte per scoraggiare persone e animali dal fare una nuotata nella vasca. Poca cosa, in confronto ai vantaggi del mio nuovo stato. Neanche m’interessava conoscere com’ero fatta: sapevo soltanto che non ero più la miniatura della Grande onda del signor Hokusai. Ma dal momento che avevo trovato la felicità, che importanza aveva?

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